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L’ultimo viaggio

 

Quando penso a ciò che era accaduto, rivedo la mia famiglia come in fondo a un binocolo, intorno c’è una specie di nebbia. La vedo come se la stessi filmando.

Nel 1966 Arturo aveva acquistato una cinepresa e non faceva altro che riprendere nostra figlia Elenia appena nata e i nostri pranzi con lo champagne, alla presenza eterna dei miei genitori, Fedra e Gaudenzio.

Eccomi, durante il mio ultimo picnic in montagna, agosto 1971. Noi tre a mangiare i panini, seduti accanto alla cappella di Sant’Anna, sopra Gressoney.

Bevo un sorso dalla borraccia rossa. Abbraccio mia figlia troppo stretta. Troppo stretta. Lei si mette a piangere.

«Vado a fare un giro» dico, aggiustandomi il pantalone alla zuava che è salito sopra al ginocchio.

«Ok Misia, ma torna presto». Arturo… sento ancora i suoi baci sul collo.

Mi allontano. Un piede davanti all’altro. Verso dove? Non mi ricordo. Forse voglio digerire il pranzo, no, forse raccogliere delle stelle alpine, oppure stare da sola a pensare alla mia vita.

Mi capitava spesso in quel periodo. Dopo l’impresa delle Cento Donne sul Monte Rosa avevo deciso di cambiare, di adeguarmi, di lasciar perdere la mia parte artistica.

Poi, cosa era stato di me?

E avevo anche il coraggio di lamentarmi?

Non ero diventata un’artista, no, è vero, ma una figlia… non è una creazione?

Ecco lo strapiombo, lì sotto, basta poco… basta poco…

Quanto tempo è passato da quando mi hanno chiusa qui dentro?

Mi ricordo della profezia della cartomante. Mi aveva così impressionata. Ma non pensavo che fosse per me.

Nella mia condizione la vita è un sogno, è un vago ricordo di ciò che è stato, non ha confini, se non quelli che decido io.

I primi tempi rimanevo rannicchiata sul fondo, disorientata, alla ricerca di qualcosa che sfuggiva.

Poi mi sono fatta coraggio e ho iniziato a dare delle sbirciatine fuori. E infine a perlustrare i dintorni.

Non che il cimitero di Novara fosse particolarmente diverso dagli altri. Anzi, era piuttosto banale, grande e affollato. Un viale in centro e ramificazioni infinite verso l’oblio degli altri corpi.

Io mi trovavo quasi in cima all’edifico che ospitava i loculi eterni, quelli che costavano di più. Lo aveva voluto mio marito.

Una volta approfittai della scala che qualcuno aveva lasciato sotto di me per provare a scendere.

Mi impegnai molto perché i piedi non aderivano agli scalini. Finché non compresi che non avevo più bisogno di scale. Bastava pensare a ciò che volevo fare e in breve mi trovavo in azione, se così si può dire di un essere senza peso, senza forma, senza respiro.

Quando mi decidevo a uscire, a volte c’era la neve e io sentivo solo un ricordo di ciò che era stato il freddo.

Altre c’era un sole infuocato, seccava tutti i fiori e intimoriva i lumini che di notte vibravano come anime in pena. Ma non coloriva il mio viso. Niente più lentiggini, niente sfumature di rame sui capelli. La mia faccia e tutto il resto se ne stavano immobili a marcire, là dentro.

 

Mi vedo ancora in quella strana nebbia assolata di agosto, i pensieri si confondono. Sono io ma non lo sono più.

Percepisco la caduta verso il basso. Tanti dolori differenti, sento le ossa che si spezzano a contatto con rocce aguzze, sassi, pezzi di legno.

Il mio urlo che si perde tra i rododendri e le rocce indifferenti.

Rimango lì a osservare quel mucchio di ossa sanguinanti. Ho gli occhi chiusi. Uno zigomo sta diventando livido e si gonfia. Vengo sospinta da una lieve brezza che accompagna il calare del sole. Non provo più niente. Solo stupore.

Intorno una pace interrotta dal richiamo delle marmotte, ronzii. In lontananza i campanacci delle mucche.

Tra le mani ho una stella alpina, ma una folata di vento la porta lontana. Nella mia innaturale immobilità non riesco ad acchiapparla. Osservo l’anello di ametista che è infilato nel mio dito: l’oro che tiene incastonata la pietra è tutto storto, si vede che nella caduta ha battuto da qualche parte.

L’alberello che ha fermato il mio corpo è giovane e pietoso. Se si fosse trovato più su, forse, me la sarei cavata con qualche graffio e ora sarei in albergo a bere un genepy per scacciare lo spavento.

Torno a vedere dove si trovano Elenia e Arturo. Mi stanno chiamando: “Artemisia! Dove sei?”

Io sventolo le braccia, saltello per cercare di attirare la loro attenzione.

“Sono qui! Mi sentite? Mi vedete?”

 

I giorni e le notti nel mio loculo passano senza che li senta depositarsi sulle mie rughe. Non ho rughe. Certo, a quarant’anni iniziano a scavare, ma con me hanno finito il loro lavoro.

Per ricordare com’ero, guardo la foto che hanno messo sulla tomba. Avevo una frangetta e un sorriso leggero.

Ogni tanto Arturo veniva a trovarmi. Mi portava un mazzo di rose rosse, di numero dispari.

Solo in un’occasione l’ho sentito lamentarsi del fatto che una rosa era andata perduta. Non riusciva a capire dove fosse finita. E non voleva assolutamente infilarne un numero pari nel vaso sulla tomba. Io ero d’accordo. Questo problema lo stava tenendo vicino a me qualche minuto in più.

C’era anche Elenia quella volta, e i miei genitori, che sembravano due candele consumate.

Mia figlia correva avanti e indietro, cercando la rosa scomparsa.

Per lei quella caccia al tesoro era un gioco, aveva sette anni. Se aveva sette anni, erano già passati due anni da quando mi avevano infilata nella cassa, senza neanche potermi mettere il vestito che Arturo aveva preparato per me.

Non potevano sapere che la rosa me l’ero presa io, era accanto alle mie spoglie. Fresca e rossa come l’amore.

Le stagioni si susseguivano e Arturo veniva sempre di meno a trovarmi.

Elenia non la vedevo più.

Finché un giorno non venne più nessuno.

 

Uscivo poco, perché non sapevo dove andare. I miei genitori non si trovavano più nella casa di Novara dove ero cresciuta. Elenia e Arturo avevano lasciato il nostro appartamento di viale Lombardia a Milano.

Ma dove diavolo si erano cacciati tutti?

Le ricerche erano penose. Stavo meglio a sonnecchiare tra le mie spoglie, senza pensieri, ricordi o desideri.

Rimasi così decine di anni. Come si fanno a quantificare decine di anni, quando si è ridotti a un soffio di esistenza che tende al nulla?

Se nessuno ti pensa, tu scompari. E di me non era rimasto quasi più niente.

 

A disturbare il mio declino verso la disgregazione finale furono dei rumori, neanche tanto delicati.

Qualcuno stava demolendo la mia lapide!

“Ehi, aspettate! Ma che state facendo?”

Misi un occhio fuori dal loculo e vidi due operai appollaiati sulla scala che stavano togliendo le lunghe viti dal mio marmo.

“Questa è la mia tomba, state distruggendo il mio loculo! Ma come vi permettete?”

Sembrava che non mi sentissero, anche se continuavano a fare ampi movimenti con le braccia, come se qualcosa li disturbasse.

Noi morti facciamo fatica a essere percepiti dai vivi, ma a volte ci riusciamo. Dobbiamo essere molto convinti per attraversare la porta che ci separa da loro. E io, modestamente, quando mi ci metto, riesco a essere peggio di una zanzara. So anche rubare una rosa rossa.

Misi le mani a coppa sulle orecchie e aspettai il termine di quel trambusto, un po’ incuriosita. Dopo un po’ iniziai a ballare come se fossi su una nave nel pieno della tempesta. Il mio corpo consumato viaggiava da una parte all’altra della bara e io saltellavo di qua e di là, spazio permettendo.

Con un tonfo mi misero giù, su un carrello con le ruote e via, verso l’uscita del cimitero.

Mi caricarono su una macchina lunga, simile a quella che nel 1971 mi aveva trasportata lì. Guardai l’anno che compariva sul navigatore dell’auto, insieme alla data: 16 agosto 2005. Che combinazione, proprio la data della mia morte!

Quando me ne sono andata non c’erano ancora navigatori, telefonini e diavolerie varie, ma nei miei giretti ho imparato a conoscerli, anche se non credo di saperli utilizzare.

Il viaggio fu abbastanza lungo, 2 ore e 55 minuti, finché non arrivai in un paese che si chiama Diano. Vidi il cartello mentre l’auto si dirigeva verso monte, lungo una strada contorta e strettina.

Finché non accadde una cosa che fece riattivare tutte le mie energie.

Passammo davanti a una casa, la macchina andava piano per via delle curve e, sul terrazzo, vidi una donna che guardava verso l’auto e, incredibile, mi assomigliava tantissimo!

Uscii in ricognizione e mi piazzai davanti a lei, per osservarla meglio. Aveva circa la mia età… un momento, ma questa è Elenia! Mia figlia!

Lo sento, è lei che ha organizzato tutto, per tenermi vicina. Ora che è adulta e può decidere della sua vita.

Le giro attorno, avvolgendola con tutto il mio amore. Lei continua a guardare la strada, vede il feretro che avanza lentamente, come quella volta, a Novara.

Una lacrima le cade sulla guancia. Cerca di cancellarla con una mano. Io mi affretto a toccarla, voglio appropriarmi di quella goccia di vita tutta per me, tutta mia.

Per un istante mi guarda negli occhi. Mi vede? Sorride e anche io le sorrido. Si abbraccia il busto e io mi infilo lì dentro e nell’orecchio le sussurro: siamo di nuovo insieme.

Le sue braccia mi stringono, so che mi sente e risponde: «Mamma, nel piccolo cimitero del paese dove vivo, ora c’è anche papà. Ho preparato un piccolo giardino, con una lapide di pietra, l’edera e un alberello per farvi sentire tra le vostre amate montagne. Finalmente starete di nuovo insieme e io verrò a trovarvi. Sai, ho scritto un libro per te. Parla della tua scalata. In fondo, l’idea di farmi venire al mondo, è nata in quell’occasione. Verrò a leggertelo, un po’ alla volta.»

Figlia mia

non ti ho mai persa

siamo fatte della stessa anima

un istante lungo come l’eternità ci accoglie

per lasciare che le nostre emozioni

si uniscano

di nuovo

Così io, Artemisia, in qualche modo, continuo a vivere. In un cimitero di campagna e pure in un romanzo, che non è roba da poco, ne converrete.

Spero che mia figlia Elenia, di cui vado molto fiera, avrà voglia di parlare ancora di me, credo che ci sia altro da raccontare… voi che ne dite?

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